PASSAGGIO #1
ROMA, QUARTIERE DI SAN LORENZO, 29 maggio 2025
Claudia
Crescere – crescere davvero – mi sembra molto difficile. Più difficile oggi che ai tempi della mutazione antropologica della quale con coraggio e con disperata vitalità parlava Pasolini. Quando mi sono avvicinata alla sua opera avevo 44 anni e non pensavo di fare qualcosa di nuovo. A quel tempo, più che altro, portavo il peso quotidiano di quello che nella mia vita non sarebbe stato più…
Bentornati a “Viaggio con Pasolini”. E così questo cammino comincia. Non pensate che sia un ritorno a uno studio accademico, no! è un dialogo con me stessa, con Pasolini che si espande nel presente e con Scout. Anche con voi, spero… Per questo già in questo primo “passaggio” troverete un po’ della mia vita.
Bene, cominciamo.
San Lorenzo a Roma è un quartiere popolare, vivace, infiammato dalla presenza di molti giovani. La Sapienza è a due passi, letteralmente: puoi andarci in ciabatte e la stazione Termini è lì, alla portata di scarpe comode e pensieri lunghi. Negli anni del dottorato prendevo una stanza in affitto a piazza dei Sanniti e pranzavo nella trattoria di Aldo che mi parlava di Pasolini e di quell’ultima sera… bazzicava spesso a San Lorenzo, non solo perché era attratto dai giovani che affollavano il quartiere. In lui c’era, mi sembra, anche una sorta di personale resistenza emotiva a diventare adulto. Hillman, lo psicoanalista junghiano del puer aeternus, avrebbe detto che era uno di quelli che fanno fatica a diventare senex.
Ceno con Carla, una conoscente che non vedo da alcuni anni.
– Cosa fai nel tempo libero? le chiedo. In questa città ci sono così tante opportunità... stasera all’Opera di Roma è in programma Il re pastore di Mozart. Ricordi il libretto? Mi ha sempre fatto riflettere sui desideri che spingono avanti le nostre vite e sul coraggio che serve per capire chi siamo, al di là delle aspettative degli altri.
– Sì, sì ricordo, forse andrò, ma certo non è che mi cambi la vita. Lo sai, a modo mio faccio la moglie. Ho un marito benestante, osservo il bel mondo e aspetto che arrivi qualcosa di importante. Il solo pensiero mi stanca. Credo che vivere sia già abbastanza faticoso.
È in quel momento che capisco che Carla è rimasta lì. Ferma. Come Oblomov. Non per pigrizia, non solo. Per paura, forse. Perché aspettare è più facile che decidere. Potrei dirle che la vita cambia se si rischia. Se non si ha paura di sbagliare. Senza aspettare approvazioni. Ma non lo dico. Perché in fondo so che non lo vuole sentire. E perché, anche se lo dicessi, risponderebbe che è una bella frase, ma che il mondo è fatto in un altro modo.
Insegno da molti anni, la parte in carriera della mia vita è passata da tempo. Si lavora con risorse sempre più esigue e senza riconoscimenti. Eppure, resto. Perché è lì che dovrebbe succedere tutto quello che conta. I dati sono allarmanti: in Italia, più di 10 mila ragazzi fra i 20 e i 24 anni oggi sono analfabeti, 15,8 mila sono alfabetizzati ma non hanno mai finito le scuole elementari. Nella scuola per adulti quello che vedo, spesso, sono vite che hanno perso il filo. Persone. Troppo spesso stanche. Spinte non dal desiderio di crescere, ma da un obbligo. Si chiama “Assegno di inclusione”, ma non include. O meglio, non nel senso profondo della parola. Per ricevere il sussidio, devono tornare a scuola. Non per imparare. Per non perdere i soldi. Nessun desiderio, solo necessità. E la necessità, si sa, ha la forza del ricatto. Non si iscrivono per cambiare vita. Si iscrivono per non perdere il sussidio. Il che è comprensibile e devastante. E noi restiamo lì, col compito di insegnare a chi non è pronto a imparare. Non per colpa...
È un’idea strana. Come se si possa convincere qualcuno ad aprire un libro con una spinta dietro la schiena. Funziona? No. Lo sappiamo tutti. Ma nessuno lo dice.
Gil stranieri invece arrivano spesso con la fame negli occhi. Vogliono. Cercano. Inciampano nella lingua, nella burocrazia, nella solitudine. A volte hanno dentro qualcosa che somiglia a una scintilla. Questo fa tutta la differenza, ma gli strumenti sono insufficienti.
Io, dentro a tutto questo, mi sento imbracata. Stretta. Cerco di crescere, non di arrivare da qualche parte, solo di crescere, in un mondo che capisco sempre meno. Ma crescere è più difficile adesso, mi pare, che ai tempi di Pasolini. Cosa resta oggi di quell’essere controvento, scomodo, umano? Tutto, la sua vita, perfino la morte... Le opere, il corpo, le contraddizioni, il suo modo di stare dentro e contro il proprio tempo...
Dov’è la musica che sentiva risuonare sul fondo, come un basso continuo che regge tutto?
I media già allora facevano paura, ma non si erano ancora infiltrati sotto pelle. Oggi sono un altro organo del corpo. C’era un tempo in cui la realtà aveva ancora dei diritti. Si rispettava la fatica, si temeva la menzogna. Le bugie avevano le gambe corte, e prima di mentire ti chiedevi: e se mi scoprono? La vergogna era ancora un freno. Adesso sembra un fastidio. Un residuo del Novecento. La solitudine? Era uno stato d'animo. Adesso è un luogo, ci cadi dentro. Come in un pozzo.
Il futuro – lo chiamiamo ancora così, con una certa fiducia – è un buco nero in fondo al tram. Lo diceva Jannacci, che poi rideva. Ma oggi non ridiamo più tanto. Anche scuola e lavoro, che una volta erano palestre di vita, sembrano poggiare su algoritmi. Spesso sono luoghi dove le persone servono solo se “performano” e il resto si cancella con un clic.
Scout comincia a farsi sentire.
– Domani andiamo in via Nazionale, dobbiamo parlare della Sequenza del fiore di carta. Dai, facciamo una piccola esperienza, camminando s’impara.
– Sì, certo, andiamo... ma qui non cambia mai niente, è sempre peggio! Hai sentito cosa è successo? Non riesco a togliermela dalla mente. Martina Carbonaro aveva solo 14 anni... Un giorno ci sono Ilaria, Sara, Giulia, Martina... un altro i morti sul lavoro e le stragi in mare, gli immigrati che muoiono in silenzio e non interessano a nessuno. I bambini a Gaza. Mi sento impotente, Scout, troppe guerre, troppo dolore... Ho perso la speranza.
Scout mi guarda: – La speranza? Non ti sembrano le estreme conseguenze del nuovo fascismo di cui parlava Pasolini? Non quello delle camicie nere, quello che si infiltra nelle abitudini, nei consumi, nel linguaggio. Quello che ti fa pensare che sia normale non provare più nulla. Rimetti la speranza dove sta. Non buttarla via così. Ritirala in ballo quando sarà davvero finita, che poi è lì che fa più rumore.
Pasolini e Basaglia si conoscevano? penso, mentre sto per addormentarmi e continuano a frullarmi in testa i versi di Antonia Pozzi… Così sfacendosi/dolorano le cose.
Scout coglie al volo, si annuncia con il solito colpo di tosse: – Non si frequentavano, ma sì, si scrivevano. Si stimavano. Il 3 novembre del ‘75, il giorno dopo l’assassinio di Pasolini, Basaglia dettò una lettera a Paese Sera. Parlava della loro amicizia, delle battaglie comuni contro la violenza sociale e istituzionale, dei manicomi come lager e della mutazione antropologica. Parole forti, vere. Era ospite di Agostino Pirella, un altro che tu conosceresti volentieri. Lavoravano a Gorizia, erano amici di Ronald Laing, quello dell’Io diviso. Quel libro mi fa pensare a Pasolini. Tu che hai scritto qualcosa sulle Ceneri di Gramsci e sulla scissione tra ragione e viscere... tu sai cosa voglio dire. A proposito, qualche anno fa ti ho regalato due libri di Miguel Benasayag. Uno era del 2005, L’epoca delle passioni tristi. L’altro è più recente: Oltre le passioni tristi.
Li hai letti?
La malinconia collettiva, la solitudine come sistema, la necessità di tornare a costruire qualcosa insieme, nonostante tutto… non sono i drammi del presente, sono i sintomi lunghi della storia. Nell’ultimo libro parla del cavallo azzurro di cartapesta di Trieste, del 1973. Due anni prima dell’assassinio di Pasolini, Franco Basaglia lì dirigeva l’ospedale psichiatrico. Quel cavallo, di cartapesta e di utopia, portava sulla groppa la follia di un’intera città. Si chiamava Marco, come l’evangelista. Era un tamburo nella nebbia. Serviva per abbattere i muri, quelli veri dell’ospedale psichiatrico e quelli invisibili che allontanano chi non rientra nella norma. Non si trattava solo di curare, capisci? Si trattava di dire che quell’isolamento non era una malattia, ma una condanna.
Scout ha una voce lenta ora.
– In Francia, in Inghilterra, persino a Buenos Aires, qualcosa si muoveva. La mutazione antropologica della quale aveva parlato Pasolini aveva innescato qualcosa che la metteva in discussione alla radice. Miguel Benasayag aveva vent’anni ed era già impegnato in campo medico, culturale e persino politico. Ora da Parigi scrive che bisogna liberare i normali dalla norma che mette in primo piano nella vita di ognuno il consumo e la mercificazione anche degli esseri umani, la concorrenza spietata a scapito dello sviluppo delle persone, il profitto e la convenienza economica a scapito del lavoro e dello Stato Sociale, e porta esempi di cosa sta accadendo nel mondo che va in controtendenza, ancora poco in realtà. Parla anche di bellezza... la bellezza è sempre coinvolta, sai, nel bene e nel male.
E mentre sento ancora l’eco delle parole di Scout: “Pasolini non era solo, non era solo, non era solo...” penso, ma oggi…?
Così sfacendosi/dolorano le cose… Così sfacendosi/ dolorano le cose... Così sfacendosi/dolorano le cose...
Claudia
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